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Archivio per categoria: Giurisprudenza

La Corte costituzionale e il precariato della scuola

8 Agosto 20160 Commenti-da admin

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 187, depositata il 20 luglio 2016, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la normativa nazionale in materia di contratti a tempo determinato nel comparto scuola e in particolare “dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino”.

Tale decisione era largamente prevedibile dopo la nota sentenza Mascolo della Corte di Giustizia (cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13).

Proprio da tale decisione muove l’analisi della Corte costituzionale.

Secondo la Corte europea le esigenze di continuità didattica che inducono ad assunzioni temporanee di dipendenti nel comparto scuola possono costituire una ragione obiettiva che giustifica sia la durata determinata dei contratti conclusi con il personale supplente, sia il rinnovo di tali contratti in funzione delle esigenze di continuità didattica.

Tuttavia, nel caso in esame. il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare queste esigenze non hanno avuto, di fatto, un carattere provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, e pertanto non giustificato.

Dalla decisione della Corte di Giustizia, per il Giudice delle leggi, ne consegue la “illegittimità costituzionale, dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124 del 1999”.

La normativa comunitaria non prevede però misure sanzionatorie specifiche, rimettendone l’individuazione alle autorità nazionali e limitandosi a definirne i caratteri essenziali (dissuasività, proporzionalità, effettività).

Restano, dunque, spazi per la normativa nazionale sulle ricadute sanzionatorie dell’illecito.

La Corte costituzionale, anche in questo caso, muove dalla sentenza Mascolo che individua alcune delle misure che possono essere adottate (procedure di assunzione certe, anche nel tempo, e risarcimento del danno), non escludendone altre, purché rispondenti ai requisiti ricordati.

Secondo la Corte Costituzionale le misure sono fra loro alternative e quindi si deve ritenere sufficiente l’applicazione di una sola di esse purché “presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione”.

Da tale principio deriva, secondo le conclusioni della Corte, che gli interventi posti in essere dall’Italia sono adeguati essendo previsto per i docenti un programma straordinario di assunzione attraverso o lo scorrimento della graduatoria o concorsi riservati e per il personale ATA il risarcimento del danno espressamente preso in considerazione dalla normativa in questione (legge n. 107 del 2015).

https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/11/testata-giurisprudenza.jpg 300 500 admin https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/07/logo-albi.png admin2016-08-08 17:27:352019-11-04 16:50:18La Corte costituzionale e il precariato della scuola
Giurisprudenza in Giurisprudenza

La Corte di Giustizia sul diritto alle ferie

8 Agosto 20160 Commenti-da admin

Con la sentenza resa nella causa C-341/15 (Hans Maschek/Magistratsdirektion der Stadt Wien-Personalstelle Wiener Stadtwerke) la Corte di Giustizia risponde ad alcune questioni poste dal giudice del rinvio sull’articolo 7 della direttiva 2003/88 in materia di ferie annuali.

Nel caso di specie un dipendente pubblico della città di Vienna, era stato collocato a riposo su sua richiesta; in forza di un accordo concluso con il suo datore di lavoro si era previsto che il lavoratore, pur continuando a percepire lo stipendio, non fosse tenuto a presentarsi sul posto di lavoro nel periodo precedente il suo pensionamento.

Durante tale periodo il dipendente è stato in congedo per malattia; pertanto, dopo il suo pensionamento, chiedeva al proprio datore di lavoro il pagamento di un’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute.

Il datore di lavoro ha respinto la domanda del dipendente, in quanto, ai sensi della normativa relativa alla retribuzione dei dipendenti pubblici della città di Vienna, un lavoratore che, di propria iniziativa, ponga fine al rapporto di lavoro – in particolare chiedendo di essere collocato a riposo – non ha diritto a una siffatta indennità.

Con la sentenza, depositata il 20 luglio 2016, la Corte rammenta che l’art. 7 della direttiva 2003/88 prevede che ogni lavoratore debba beneficiare di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane e che il diritto alle ferie annuali retribuite costituisce un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione che è conferito a ogni lavoratore, indipendentemente dal suo stato di salute.

Quando cessa il rapporto di lavoro e dunque la fruizione effettiva delle ferie annuali retribuite non è più possibile, la direttiva prevede che il lavoratore abbia diritto a un’indennità finanziaria per evitare che, a causa di tale impossibilità, egli non riesca in alcun modo a beneficiare di tale diritto, neppure in forma pecuniaria.

Dunque l’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, come interpretato dalla Corte, “non assoggetta il diritto a un’indennità finanziaria ad alcuna condizione diversa da quella relativa, da un lato, alla cessazione del rapporto di lavoro e, dall’altro, al mancato godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali a cui aveva diritto alla data in cui tale rapporto è cessato (sentenza del 12 giugno 2014, Bollacke, C‑118/13, EU:C:2014:1755, punto 23). […] Ne consegue, conformemente all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, che un lavoratore, che non sia stato posto in grado di usufruire di tutte le ferie retribuite prima della cessazione del suo rapporto di lavoro, ha diritto a un’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute. A tal fine è privo di rilevanza il motivo per cui il rapporto di lavoro è cessato”.

Da tali premesse ne discende che, al fine di assicurare l’effetto utile di tale diritto alle ferie annuali, se il lavoratore è tenuto a non presentarsi a lavoro in forza di un accordo concluso con il suo datore di lavoro, non ha diritto all’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute durante tale periodo ma se il lavoratore non ha potuto usufruire delle ferie a causa di una malattia, quest’ultimo avrà diritto, conformemente all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute.

https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/11/testata-giurisprudenza.jpg 300 500 admin https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/07/logo-albi.png admin2016-08-08 17:25:042019-11-04 16:50:18La Corte di Giustizia sul diritto alle ferie
Giurisprudenza in Giurisprudenza

Art. 18, pubblico impiego, reintegrazione old style

19 Giugno 20160 Commenti-da admin

Una interessante sentenza della Cassazione afferma che ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni deve applicarsi l’art. 18 stat. lav. nella versione antecedente alla riforma Fornero (l. n. 92/2012).

La sentenza – di cui si è molto discusso nell’ultima settimana spesso con fraintedimenti e approssimazione – è la n. 11868 del 9 giugno 2016.

La particolare complessità della motivazione rende utile, anche per rimanere al dato testuale,  riprodurne di seguito il passaggio di maggiore interesse.

“3.2 – Il Collegio non ignora che sulla questione che qui viene in rilievo si sono formati nella giurisprudenza di merito, anche sulla base delle indicazioni provenienti dalla dottrina, orientamenti contrastanti che, per giungere ad affermare o a negare la applicabilità ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, hanno valorizzato, principalmente, da un lato il rinvio mobile alle disposizioni dettate dalla legge n. 300 del 1970 contenuto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51 e la necessità di garantire, anche dopo la riforma, uniformità di trattamento fra impiego pubblico e privato; dall’altro la L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 7 e 8 nonchè la inconciliabilità della nuova disciplina con lo specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e segg. delle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

La sentenza di questa Corte 25 novembre 2015 n. 24157 ha fatto propria solo parzialmente la prima delle due opzioni esegetiche a confronto, poichè, pur affermando la applicabilità della riforma ai rapporti disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, ha ritenuto di dovere, comunque, salvaguardare la specialità della normativa del procedimento disciplinare dettata per l’impiego pubblico dalle disposizioni sopra richiamate e, quindi, ha ricondotto all’art. 18 comma 1 e 2 modificato la violazione delle regole procedimentali, in quanto causa di nullità del licenziamento.

Il Collegio ritiene che detto orientamento debba essere disatteso, giacchè plurime ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti di lavoro disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.

Invero la L. n. 92 del 2012, art. 1, dopo aver previsto al comma 7 che “Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall’art. 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all’art. 3 del medesimo decreto legislativo.”, al comma 8 aggiunge che “Al fine dell’applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.

Sebbene la norma, che risulta dal combinato disposto dei commi 7 e 8, sia stata formulata in termini diversi rispetto ad altre disposizioni, con le quali è stata esclusa l’automatica estensione all’impiego pubblico contrattualizzato di norme dettate per l’impiego privato (si pensi, ad esempio, alla D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2), tuttavia a fini interpretativi assume peculiare rilievo il rinvio ad un successivo intervento normativo contenuto nel comma 8, non dissimile da quello previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 8, che ha, appunto, demandato al Ministro della funzione pubblica, previa consultazione delle organizzazioni sindacali, di assumere le iniziative necessarie per armonizzare la disciplina del pubblico impiego con la nuova normativa, pacificamente applicabile al solo impiego privato.

La circostanza che il comma 7 faccia salve le disposizioni della L. n. 92 che dispongano in senso diverso, si giustifica considerando che la stessa legge contiene anche norme che si riferiscono espressamente all’impiego pubblico (in particolare l’art. 2, comma 2, esclude dall’ambito della operatività dell’ASPI i dipendenti delle pubbliche amministrazioni), sicchè la eccezione opera solo con riferimento alle disposizioni in relazione alle quali la questione della applicabilità all’impiego pubblico sia stata già risolta in modo espresso dal legislatore del 2012.

Non è, questo, il caso della nuova disciplina del licenziamento, perchè sulla estensione della stessa all’impiego pubblico nulla è detto nell’art. 1, con la conseguenza che, in difetto di una espressa previsione, non può che operare il rinvio di cui al comma 8.

Ciò comporta che, sino al successivo intervento normativo di armonizzazione, non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all’art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma.

3.3 – Dette conclusioni, fondate sul tenore letterale della disciplina in commento, sono avvalorate da considerazioni di ordine logico e sistematico che, nel rispetto della doverosa sintesi imposta dall’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., possono essere così riassunte:

  1. a) la definizione delle finalità della L. n. 92 del 2012, per come formulata nell’art. 1, comma 1, tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata, alla quale solo può riferirsi la lettera c), che pone una inscindibile correlazione fra flessibilità in uscita ed in entrata, allargando le maglie della prima e riducendo nel contempo l’uso improprio delle tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;
  1. b) la formulazione dell’art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all’impiego pubblico contrattualizzato per il quale il legislatore, in particolar modo con il D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, ha dettato una disciplina inderogabile, tipizzando anche illeciti disciplinari ai quali deve necessariamente conseguire la sanzione del licenziamento;
  1. c) la inconciliabilità della nuova normativa con le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 165 del 2001 è particolarmente evidente in relazione al licenziamento intimato senza il necessario rispetto delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6 dell’art. 18 fa riferimento alla sola L. n. 300 del 1970, art. 7 e non agli artt. 55 e 55 bis del D.Lgs. citato, con i quali il legislatore, oltre a sottrarre alla contrattazione collettiva la disciplina del procedimento, del quale ha previsto termini e forme, ha anche affermato il carattere inderogabile delle disposizioni dettate “ai sensi e per gli effetti dell’art. 1339 c.c. e artt. 1419 c.c. e segg.”;
  2. d) una eventuale modulazione delle tutele nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l’impiego privato, poichè, come avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in quest’ultimo il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi (Corte Cost. 24.10.2008 n. 351).

Viene, cioè, in rilievo non l’art. 41 Cost., commi 1 e 2, bensì l’art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.

3.4 – La ritenuta inapplicabilità della riforma all’impiego pubblico contrattualizzato non può essere esclusa solo facendo leva sul rinvio contenuto nella L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 51, comma 2, “e successive modificazioni ed integrazioni”. Osserva innanzitutto il Collegio che il legislatore del T. U. nel rendere applicabili le disposizioni dello Statuto e, quindi, l’art. 18, a tutte le amministrazioni pubbliche, a prescindere dal numero dei dipendenti, ha voluto escludere in ogni caso, pur in un contesto di tendenziale armonizzazione fra impiego pubblico e privato, una tutela diversa da quella reale nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, anche per quelle amministrazioni, pur numerose (si pensi, ad esempio agli enti territoriali minori di limitate dimensioni), per le quali sarebbe stata altrimenti applicabile la tutela obbligatoria prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 8.

Il rinvio, seppur mobile, nasce limitato da detta scelta fondamentale compiuta dal legislatore, che rende incompatibile con la volontà espressa nella norma di rinvio l’automatico recepimento di interventi normativi successivi, che modifichino la norma richiamata incidendo sulla natura stessa della tutela riconosciuta al dipendente licenziato.

Va, poi, sottolineato che, anche in presenza di una norma di rinvio finalizzata ad estendere ad un diverso ambito una normativa nata per disciplinare altri rapporti giuridici, è consentito al legislatore di limitare, con un successivo intervento normativo di pari rango, il rinvio medesimo e, quindi, di escludere l’automatica estensione di modifiche della disciplina richiamata.

Detto intervento, che è quello verificatosi nella fattispecie, fa sì che il rinvio si trasformi da mobile a fisso, ossia che la norma richiamata resti cristallizzata nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla riforma, che, quindi, continua a disciplinare i rapporti interessati dalla norma di rinvio, dando vita in tal modo ad una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in rilievo.

In via conclusiva ritiene il Collegio di dovere affermare, per le considerazioni tutte sopra esposte, che la L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012, non è stato espunto dall’ordinamento ma resta tuttora in vigore limitatamente ai rapporti di lavoro di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.”

 

 

 

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Giurisprudenza in Giurisprudenza

Novità sul fronte del licenziamento discriminatorio?

9 Giugno 20160 Commenti-da admin

Cass., sez. lav., 5 aprile 2016, n. 6575 interviene su un’ipotesi di licenziamento intimato nei confronti della lavoratrice che manifesta al datore di lavoro l’intenzione di assentarsi per un periodo di tempo allo scopo di sottoporsi a pratiche di inseminazione artificiale.

I Giudici di legittimità considerano il licenziamento nullo in quanto discriminatorio, confermando la sentenza d’appello.

Secondo quest’ultima, con il licenziamento veniva sanzionata una condotta legittima “che è esclusiva della donna”, ponendo in essere una discriminazione fondata sul sesso, in violazione dalla direttiva 76/207/CEE.

Secondo la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 28 febbraio 2008 (causa C. 506/06) “i lavoratori di entrambi i sessi possono avere un impedimento di carattere temporaneo ad effettuare il loro lavoro a causa dei trattamenti medici che debbano seguire. Tuttavia, gli interventi di cui trattasi nella causa principale, vale a dire un prelievo follicolare e il trasferimento nell’utero della donna degli ovuli prelevati immediatamente dopo la loro fecondazione, riguardano direttamente soltanto le donne. Ne consegue che il licenziamento di una lavoratrice a causa essenzialmente del fatto che essa si sottoponga a questa fase importante di un trattamento di fecondazione in vitro costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso”.

Applicando il principio al caso affrontato dalla sentenza, la Corte di Cassazione afferma che per identificare la natura discriminatoria del licenziamento intimato “rileva unicamente il rapporto di causalità tra il trattamento di fecondazione e l’atto di recesso e non anche la circostanza che l’intervento – con il conseguente impedimento al lavoro – sia stato già effettuato, sia in corso (come nella fattispecie scrutinata dalla Corte di Giustizia) ovvero, come nella fattispecie dì causa, sia stato semplicemente programmato”.

 

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licenziamento per inidoneità alle mansioni

9 Giugno 20160 Commenti-da admin

Cass., sez. lav., 26 aprile 2016, n. 8248 affronta l’ipotesi di licenziamento intimato al lavoratore sulla base della contestazione da parte del datore di lavoro di avere appreso in ritardo il riconoscimento dello status di invalido civile in capo al lavoratore, in quanto non vedente e sull’assunto che il riconoscimento di invalido civile in quanto non vedente lo rende inidoneo alle mansioni dedotte in contratto.

Secondo la Suprema Corte già il tenore della lettera “radica il convincimento che proprio la condizione di non vedente del lavoratore sia stata la ragione esclusiva del licenziamento intimatogli: tanto più che la stessa Corte aquilana ha contraddittoriamente rilevato che “la incapacità a rendere proficuamente la prestazione di lavoro è correlata non ad effettive disfunzioni rilevate nello svolgimento dei compiti di pertinenza del P. , posto che nessun fatto specifico gli viene rimproverato, ma alla sua condizione di invalidità… che non ha impedito però al P. , almeno fino a che è durato il rapporto, di svolgere le sue attività”.

La Corte di Cassazione sottolinea l’apoditticità delle conclusioni datoriali rilevando il difetto di prova che la condizione di carenza visiva avesse ostacolato la capacità del lavoratore di rendere proficuamente la prestazione e come l’inidoneità all’esecuzione della prestazione fosse sostenuta senza “alcun accertamento sanitario a norma dell’art. 5, ult. comma l. 300/1970”.

Pertanto, il licenziamento poteva essere ricondotto alle ipotesi previste dall’art. 15 della L. 300/1970 (licenziamento discriminatorio), ovvero, ai casi in cui il licenziamento viene intimato solo ed esclusivamente per ragioni di handicap.

https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/11/testata-giurisprudenza.jpg 300 500 admin https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/07/logo-albi.png admin2016-06-09 23:44:382019-11-04 16:50:19licenziamento per inidoneità alle mansioni
Giurisprudenza in Giurisprudenza

Estorsione mediante minaccia di licenziamento.

9 Giugno 20160 Commenti-da admin

Cass., sez. pen., 5 maggio 2016, n. 18727  ritiene integrato il reato di estorsione per il datore di lavoro che, mediante minaccia di licenziamento, fa sottoscrivere un contratto di lavoro a tempo parziale (con una utilizzazione continua dei lavoratori con orario superiore) con la costrizione a firmare dimissioni in bianco ed a dichiarare il falso a fronte di una visita ispettiva.

La decisione, dopo aver ricordato che l’oggetto della tutela giuridica nel reato di estorsione è l’inviolabilità del patrimonio, e, nel contempo, la libertà di autodeterminazione e che la lesione di questi diritti è il risultato di una situazione di costrizione determinata dalla violenza o dalla minaccia del soggetto agente, afferma come “anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui volontà; in tal caso, l’ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente, diventa ingiusto per il fine cui è diretto”.

Nella vicenda sottoposta all’esame dei giudici di legittimità erano emersi i comportamenti prevaricatori del datore di lavoro, il quale si era avvalso, da un lato, della situazione del mercato del lavoro allo stesso particolarmente favorevole (in cui l’offerta superava di gran lunga la domanda) e, dall’altro, della minaccia di approfittare di siffatta situazione.

La sentenza conclude ritenendo integrato il reato di estorsione anche dalla “condotta del datore di lavoro che, anteriormente alla conclusione del contratto, impone al lavoratore ovvero induce il lavoratore ad accettare condizioni contrarie a legge ponendolo nell’alternativa di accettare quanto richiesto ovvero di subire il male minacciato”.

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Prof.Avv.
Pasqualino Albi

Pasqualino Albi è professore ordinario di diritto del lavoro nel dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Pisa e avvocato giuslavorista. È autore di oltre cento pubblicazioni scientifiche in materia di diritto del lavoro, fra le quali tre monografie.

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