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Reintegra per illegittimo trasferimento di azienda e pensione di anzianità

13 Dicembre 2023da Admin2

Cass. civ., sez. lav., ord. 23/11/2023, n. 32522

Con l’ordinanza in commento la Cassazione è tornata sul tema dei rapporti fra ricostituzione del rapporto con il cedente per illegittimità del trasferimento di azienda e conseguimento della pensione di anzianità.

La Corte ha ricordato che, secondo una sua giurisprudenza consolidata, il conseguimento della pensione di anzianità non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro. Infatti, la previsione che la pensione di anzianità ha come presupposto la cessazione del rapporto di lavoro, ai sensi dell’art. 22, co. 1, lett. c) della l. 152/1969 e dell’art. 10, co. 6, d.lgs. 503/1992, si colloca sul piano del rapporto previdenziale e non su quello, distinto, del rapporto di lavoro: pertanto, la reintegrazione del lavoratore titolare di pensione di anzianità non è né invalida né impossibile, ma ha come una conseguenza la sospensione dell’erogazione della prestazione pensionistica.

Inoltre, le somme percepite dal lavoratore a titolo di trattamento pensionistico si sottraggono alla regola della compensatio lucri cum damno, non derivando dall’impiego della medesima capacità lavorativa oggetto del rapporto di lavoro ma solo dal possesso dei requisiti anagrafici e contributivi previsti dalla legge, e pertanto non comportano la riduzione del risarcimento del danno ex art. 18, l. 300/1970.

La decisione è reperibile su www.italgiure.giustizia.it

https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/07/logo-albi.png 0 0 Admin2 https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/07/logo-albi.png Admin22023-12-13 21:50:342023-12-14 11:42:30Reintegra per illegittimo trasferimento di azienda e pensione di anzianità
Giurisprudenza in Giurisprudenza

Legittimità del licenziamento del dipendente che abbia rifiutato la modifica dell’orario del rapporto part-time

13 Dicembre 2023da Admin2

Cass. civ., sez. lav., ord. 30/10/2023, n. 30093

A distanza di pochi giorni da una decisione in tema di rifiuto della trasformazione del rapporto da part-time a full-time e giustificato motivo oggettivo di licenziamento – ne avevamo parlato qui: Part time e licenziamento del lavoratore in caso di rifiuto della trasformazione del rapporto – la Cassazione è tornata su una fattispecie affine, cioè quella del licenziamento per giustificato motivo oggettivo del dipendente che abbia rifiutato la variazione della collocazione oraria del part-time.

Come nella precedente decisione, la Corte afferma una rimodulazione dei presupposti del giustificato motivo oggettivo nel caso in cui il licenziamento sia seguito al rifiuto della variazione dell’orario del part-time: il datore di lavoro, in questo caso, ha l’onere non solo di dimostrare la sussistenza delle esigenze economico-organizzative in base alle quali non può essere mantenuto l’orario precedente, nonché il nesso causale fra queste e il licenziamento, ma deve anche dimostrare l’inesistenza di altre soluzioni occupazionali o alternative orarie rispetto a quelle prospettate al lavoratore.

Secondo la Corte, si tratta dell’applicazione al contesto del part-time della regola che impone al datore di esperire un tentativo di ripescaggio: il datore deve quindi dimostrare che, oltre a quello rifiutato dal lavoratore e a quello precedente e non più compatibile con l’organizzazione aziendale, non esistono altri schemi orari della prestazione che sarebbe stato possibile proporre al dipendente in alternativa al licenziamento.

La decisione è reperibile su www.italgiure.giustizia.it

https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2020/05/240_F_280013047_cnRRwl0NQfwX7LVOZLmu96taIotzcis4-1.jpg 387 640 Admin2 https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/07/logo-albi.png Admin22023-12-13 21:49:542023-12-13 21:55:28Legittimità del licenziamento del dipendente che abbia rifiutato la modifica dell’orario del rapporto part-time
Giurisprudenza in Giurisprudenza

Obbligo di repêchage e ius variandi del datore di lavoro

13 Dicembre 2023da Admin2

Cass. civ., sez. lav., ord. 13/11/2023, n. 31561

Una recente ordinanza della Cassazione in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo valorizza il collegamento fra adempimento dell’obbligo di repêchage ed esercizio dello ius variandi datoriale, attualmente regolato dall’art. 2103 c.c. nel senso che esiste un potere unilaterale del datore di lavoro di adibire il dipendente in mansioni di pari livello, secondo gli inquadramenti previsti dalla contrattazione collettiva, e categoria legale di inquadramento.

Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto che il datore di lavoro non avesse provato che la dipendente licenziata non possedesse le competenze necessarie per essere adibita alle mansioni per le quali, successivamente al licenziamento, c’erano state assunzioni, fra cui alcune per profili rientranti nello stesso livello di inquadramento contrattuale. In particolare, la Corte ha affermato che nel contesto dell’attuale formulazione dell’art. 2103 c.c. il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non è indifferente per la valutazione dell’adempimento del repêchage, bensì costituisce un elemento che il giudice deve valutare per accertare che il dipendente licenziato fosse o meno in grado di espletare le mansioni di chi è stato assunto ex novo.

Rimane fermo il limite all’obbligo di repêchage rappresentato dal fatto che il dipendente licenziato non possedesse le competenze e l’esperienza professionale necessarie per le diverse mansioni possibili, che deve però essere verificato sulla base di circostanze oggettivamente verificabili, addotte dal datore.

La decisione è reperibile su www.italgiure.giustizia.it

https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2020/06/240_F_155163658_Uvlk9pGR7vrKFXxS1NdpO31FO8odKDKe.jpg 240 361 Admin2 https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/07/logo-albi.png Admin22023-12-13 21:49:262023-12-13 21:56:03Obbligo di repêchage e ius variandi del datore di lavoro
Giurisprudenza in Giurisprudenza

Sui simboli religiosi nei luoghi di lavoro

13 Dicembre 2023da Admin2

Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, sentenza 28/11/2023 (C-148/22)

La Corte di Giustizia è stata chiamata a decidere se la norma interna di un’amministrazione pubblica che imponga una politica di «neutralità assoluta», cioè il divieto per i dipendenti di indossare segni visibili idonei a rivelare le proprie convinzioni filosofiche o religiose, a prescindere dal contatto con il pubblico, sia compatibile con la direttiva 2000/78/CE, che sancisce il divieto di discriminazioni dirette o indirette sui luoghi di lavoro per motivi religiosi (il caso riguarda la dipendente di un comune belga, che lavora in back office, alla quale è stato vietato di indossare il velo islamico).

Innanzitutto, la Corte ha affermato che non sussiste discriminazione diretta se il divieto riguarda indifferentemente qualsiasi manifestazione di convinzioni religiose e se tratta in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa.

Invece, per quanto riguarda la possibile discriminazione indiretta – che ricorre quando una norma apparentemente neutra comporti un particolare svantaggio per determinate categorie di persone – la Corte ha ricordato che le differenze di trattamento basate sulla religione sono giustificate ai sensi della direttiva quando sono sorrette da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

Il perseguimento di una politica di «neutralità assoluta» da parte delle amministrazioni in via di principio può essere considerato una «finalità legittima», dal momento che compete a ciascuno Stato membro di definire il punto di equilibrio fra libertà di manifestazione del sentimento religioso e principio di neutralità della pubblica amministrazione. Per quanto riguarda l’appropriatezza e la necessità dei mezzi, invece, la Corte ha indicato al giudice nazionale di verificare che le misure siano limitate allo stretto necessario per il perseguimento della «politica di neutralità» e, soprattutto, che questa sia perseguita in modo coerente e sistematico: questa condizione non sarebbe rispettata qualora, ad esempio, simboli religiosi diversi, meno vistosi ma pur sempre visibili, venissero tollerati.

https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/11/testata-giurisprudenza.jpg 300 500 Admin2 https://www.studiolegalealbi.com/wp-content/uploads/2019/07/logo-albi.png Admin22023-12-13 21:47:492023-12-13 21:59:23Sui simboli religiosi nei luoghi di lavoro
Giurisprudenza in Giurisprudenza

Discriminazioni di genere e progressioni di carriera nella polizia penitenziaria

13 Dicembre 2023da Admin2

Corte costituzionale, sent. 04/12/2023, n. 211

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 211 del 4 dicembre, si è pronunciata sulla discriminazione di genere contenuta in alcune disposizioni dell’Ordinamento del personale della Polizia penitenziaria, ritenute dal giudice a quo (il Consiglio di Stato) contrastanti con gli artt. 3, 31, 37 e 117, co. 1, della Costituzione, in quanto tali da penalizzare le lavoratrici donne nell’accesso alla progressione di carriera, in relazione alla maternità.

Le disposizioni in questione, cioè gli artt. 27, co. 2 e 28, co. 4 del d.lgs. 443/1992, riguardano l’accesso alla qualifica di vice ispettore della Polizia penitenziaria. Alla qualifica si accede tramite concorso, i vincitori del quale sono nominati allievi ispettore e devono frequentare un corso di formazione al termine del quale gli allievi che abbiano superato gli esami e le prove pratiche sono immessi in ruolo.

Le disposizioni al vaglio della Consulta prevedono la dimissione dal corso per le lavoratrici assenti per maternità, con diritto di partecipare al primo corso successivo ai periodi di assenza dal lavoro. Al termine del corso, la nomina a vice ispettore e l’immissione in ruolo decorrono in relazione al corso al quale la lavoratrice ha potuto partecipare e non a quello per il quale originariamente era risultata vincitrice.

Secondo la Consulta, tale previsione contrasta con i sopra citati parametri di costituzionalità nella parte in cui non prevede la retrodatazione degli effetti giuridici della nomina alla stessa data di decorrenza attribuita agli idonei del corso di formazione originario. La posticipazione dell’immissione in ruolo comporta, infatti, il ritardo nella progressione di carriera e una definitiva perdita di chances rispetto agli altri vincitori del medesimo concorso.

Il diritto fondamentale alla parità di trattamento è violato dalle norme in questione dal momento che esso non risulta adeguatamente garantito dal solo riconoscimento del diritto a partecipare a un corso di formazione organizzato in una data successiva e incerta: l’amministrazione, infatti, non è tenuta ad attivare tale corso secondo scadenze prestabilite e, nel caso a quo, erano passati ben 12 anni prima dell’attivazione di un nuovo corso.

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Giurisprudenza in Giurisprudenza

Dipendente pubblico illegittimamente qualificato come parasubordinato e risarcimento del danno

13 Dicembre 2023da Admin2

Cass. civ., sez. lav., 27/11/2023, n. 32904

Una Corte di Appello ha condannato una Pubblica amministrazione al risarcimento dei danni in favore di un lavoratore, successivamente assunto a tempo indeterminato, che aveva lavorato per l’amministrazione in forza di una serie di contratti di collaborazione a tempo determinato, dei quali era stata successivamente accertata la reale natura di lavoro subordinato.

Secondo la Cassazione, il giudice di Appello ha correttamente applicato il principio consolidato secondo cui nel pubblico impiego, essendo impossibile convertire i rapporti a termine abusivi in rapporti a tempo indeterminato (art. 36, co. 5, d.lgs. 165/2001), deve essere garantita al lavoratore una effettiva tutela risarcitoria, che comporta il riconoscimento di un diritto soggettivo al risarcimento, in misura forfettizzata (ex art. 32, co. 5, l. 183/2010) a prescindere dalla prova del danno e salva la possibilità di provare un danno ulteriore.

Tuttavia, il giudice di Appello non ha fatto applicazione del principio, altrettanto consolidato, secondo cui l’intervento della stabilizzazione del rapporto a tempo indeterminato rappresenta una misura ben più satisfattiva del risarcimento per equivalente ed è idoneo a cancellare tutte le conseguenze dell’abuso dei contratti a termine, senza che residui necessità di un ristoro pecuniario, purché l’assunzione pervenga dall’Ente responsabile dell’abuso ed in diretta derivazione causale con l’illegittima successione dei contratti a termine.

La Corte, pertanto, ha rimesso al giudice del rinvio il compito di verificare se la stabilizzazione del rapporto sia avvenuta in ragione del precedente rapporto precario o se sia stata da questo soltanto agevolata: solo in quest’ultimo caso sussiste il diritto al risarcimento monetario.

La decisione è reperibile su www.italgiure.giustizia.it

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Prof.Avv.
Pasqualino Albi

Pasqualino Albi è professore ordinario di diritto del lavoro nel dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Pisa e avvocato giuslavorista. È autore di oltre cento pubblicazioni scientifiche in materia di diritto del lavoro, fra le quali tre monografie.

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