Cass. civ., sez. lav., ord. 9 gennaio 2025, n. 460
La Cassazione, di recente, ha ribadito il suo orientamento consolidato secondo cui il carattere discriminatorio del licenziamento, e quindi la sua nullità, non sono esclusi dalla concorrenza di un motivo legittimo, discendendo da specifiche previsioni di diritto nazionale ed europeo.
Il caso era quella di una dirigente, affetta da condizione di disabilità, la quale veniva dapprima, fatta bersaglio di reiterate condotte stressogene da parte del datore, che le inviava reiterate ed ingiustificate comunicazioni durante un periodo di malattia, e in seguito, poco dopo il rientro, licenziata per motivo oggettivo consistente nella soppressione del posto resa necessaria da una contrazione dell’attività produttiva. Il ricorso della lavoratrice veniva accolto dalla Corte d’Appello per quanto riguardava il risarcimento del danno conseguente alle condotte datoriali stressogene, e respinto per quanto riguardava la natura discriminatoria e quindi la nullità del licenziamento.
La Cassazione ha invece ritenuto fondate le ragioni della lavoratrice, ed erroneo il ragionamento della Corte d’Appello che solo formalmente si era adeguata all’orientamento di legittimità sopra ricordato e che, in particolare, aveva errato nell’omettere di valutare il carattere discriminatorio del licenziamento in sé considerato, e non tanto la discriminazione subìta dalla ricorrente con riferimento ad altri profili del trattamento nel rapporto. In particolare, era stata sottostimata l’allegazione della ricorrente che evidenziava l’assenza di ragioni diverse dalla discriminazione per la scelta proprio di lei come unica dirigente da licenziare. A fronte di circostanze simili, i giudici di Appello avrebbero dunque dovuto applicare il regime di onere della prova previsto in materia, a norma del quale, quando il ricorrente fornisce elementi tali da rendere plausibile l’esistenza della discriminazione, è il datore di lavoro a dover provare che in concreto questa non si sia verificata.
Sulle dimissioni per fatti concludenti
da Admin2Circolare INL n. 579 del 22 gennaio 2025
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro fornisce chiarimenti sull’art. 19 della L. n. 203/2024, che introduce la possibilità di considerare risolto il rapporto di lavoro in caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo o, in assenza, superiore a quindici giorni. Le dimissioni vengono considerate automatiche, salvo che il lavoratore dimostri l’impossibilità di comunicare i motivi dell’assenza per causa di forza maggiore. La circolare evidenzia il ruolo dell’Ispettorato nel verificare la veridicità delle comunicazioni del datore di lavoro e tutela i lavoratori da eventuali abusi o interpretazioni errate delle norme.
Il licenziamento può essere discriminatorio anche se è sussistente un valido motivo
da Admin2Cass. civ., sez. lav., ord. 9 gennaio 2025, n. 460
La Cassazione, di recente, ha ribadito il suo orientamento consolidato secondo cui il carattere discriminatorio del licenziamento, e quindi la sua nullità, non sono esclusi dalla concorrenza di un motivo legittimo, discendendo da specifiche previsioni di diritto nazionale ed europeo.
Il caso era quella di una dirigente, affetta da condizione di disabilità, la quale veniva dapprima, fatta bersaglio di reiterate condotte stressogene da parte del datore, che le inviava reiterate ed ingiustificate comunicazioni durante un periodo di malattia, e in seguito, poco dopo il rientro, licenziata per motivo oggettivo consistente nella soppressione del posto resa necessaria da una contrazione dell’attività produttiva. Il ricorso della lavoratrice veniva accolto dalla Corte d’Appello per quanto riguardava il risarcimento del danno conseguente alle condotte datoriali stressogene, e respinto per quanto riguardava la natura discriminatoria e quindi la nullità del licenziamento.
La Cassazione ha invece ritenuto fondate le ragioni della lavoratrice, ed erroneo il ragionamento della Corte d’Appello che solo formalmente si era adeguata all’orientamento di legittimità sopra ricordato e che, in particolare, aveva errato nell’omettere di valutare il carattere discriminatorio del licenziamento in sé considerato, e non tanto la discriminazione subìta dalla ricorrente con riferimento ad altri profili del trattamento nel rapporto. In particolare, era stata sottostimata l’allegazione della ricorrente che evidenziava l’assenza di ragioni diverse dalla discriminazione per la scelta proprio di lei come unica dirigente da licenziare. A fronte di circostanze simili, i giudici di Appello avrebbero dunque dovuto applicare il regime di onere della prova previsto in materia, a norma del quale, quando il ricorrente fornisce elementi tali da rendere plausibile l’esistenza della discriminazione, è il datore di lavoro a dover provare che in concreto questa non si sia verificata.
Fino a che punto il committente può condizionare l’organizzazione del lavoro dell’appaltatore?
da Admin2Trib. Catanzaro, sez. lav. sent. 10 dicembre 2024, n. 1028
… Senza sconfinare nell’esercizio del potere direttivo nei confronti dei dipendenti di quest’ultimo, e quindi, andando incontro al divieto di interposizione? L’interesse della questione è costantemente rinnovato dall’evoluzione delle tecnologie e degli schemi negoziali, attraverso i quali i committenti possono esercitare significativi livelli di controllo sull’organizzazione degli appaltatori.
La sentenza in oggetto ha accertato l’illegittimità di un appalto di servizi postali, e quindi la costituzione dei rapporti di lavoro alle dipendenze della committente, incentrando la verifica della carenza di autonomia dell’appaltatore sul fatto che le modalità del servizio erano predefinite fin nei minimi dettagli nei Modelli di Pianificazione di Trasporto forniti dalla committente che quindi, nei fatti, esercitava il potere direttivo, senza che residuasse alcuna discrezionalità dell’appaltatore nell’organizzare la prestazione dei dipendenti. A fronte di questo elemento decisivo, a nulla poteva valere che l’appaltatore fosse proprietario dei veicoli utilizzati.
Fra gli elementi decisivi, secondo il Tribunale, rientra anche la presenza nel contratto di appalto di una c.d. clausola di gradimento, che consente al committente di richiedere discrezionalmente la sostituzione di dipendenti dell’appaltatore, qualora “sgraditi”: clausole di questo genere sono di per sé ritenute legittime dalla poca giurisprudenza che se ne è occupata; tuttavia, la sentenza in commento ci mostra come la loro presenza, in un quadro in cui è complessivamente dubbia la legittimità dell’appalto, possa avere una forte valenza “indiziaria” e, quindi, far propendere per l’accertamento dell’interposizione illecita.
Lavoratori con disabilità e licenziamento per superamento del comporto: la Cassazione sugli obblighi di attivazione del datore di lavoro
da Admin2Cass. civ., sez. lav., ord. 7 gennaio 2025, n. 170
Una recente pronuncia della Suprema Corte, intervenuta a cassare una sentenza di Appello non conforme alla sua giurisprudenza recente, arricchisce di nuovi elementi l’orientamento secondo cui è discriminazione indiretta l’applicazione al lavoratore in condizione di disabilità dello stesso periodo di comporto per malattia applicato alla generalità dei dipendenti, dal momento che i rischi di maggior morbilità pongono il primo in una condizione di particolare svantaggio di fronte all’applicazione di un comporto indifferenziato.
La sentenza contribuisce a chiarire l’impostazione della Cassazione sulla posizione dei soggetti coinvolti in vicende simili: in particolare, per quanto riguarda quella del datore, al centro della discussione degli ultimi mesi, la sentenza fa emergere chiaramente un obbligo di attivazione in capo al datore di lavoro il quale, prima di licenziare in applicazione del periodo di comporto ordinario, deve acquisire informazioni circa la possibile correlazione fra le assenze per malattia e lo stato personale di disabilità, al fine di adottare possibili accorgimenti ragionevoli tali da evitare il recesso: questi ultimi, come sembra inevitabile, restano indeterminati, dovendo essere ritagliati sul caso concreto.
La Corte ribadisce altresì che il lavoratore, di fronte al comportamento del datore che diligentemente si informi sulla sua condizione, non può adottare un atteggiamento ostruzionistico, che impedisce l’interlocuzione necessaria per l’individuare gli accorgimenti ragionevoli; non manca, infine, un invito alla contrattazione collettiva a disciplinare «in modo esplicito» il tema, non risultando sufficienti le regole già diffuse per le assenze determinate da patologie di particolare gravità.
Ancora sui limiti per la precettazione su iniziativa dell’autorità amministrativa
da Admin2Tar Lazio, sez. III, sent. 16 gennaio 2025, n. 712
Nuovamente i giudici amministrativi sono stati chiamati a decidere di una questione caricata, nell’attuale frangente storico, di un’alta conflittualità politica: a quali condizioni l’autorità amministrativa può esercitare di sua iniziativa, e non su segnalazione della Commissione di Garanzia, il potere di precettazione riconosciutole in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali?
L’occasione per la pronuncia in commento è rappresentata dall’ordinanza con la quale il Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture aveva disposto la riduzione temporale dello sciopero proclamato per lo scorso 13 dicembre dai sindacati nei settori dei trasporti, che già a dicembre avevano ottenuto la sospensione cautelare dell’ordinanza. Nel giudizio di merito il Tar ha sconfessato la teoria secondo cui l’Autorità precettante potrebbe, semplicemente, giungere a conclusioni diverse da quelle della Commissione in merito all’esistenza di un pregiudizio grave ed imminente ai diritti della persona causato dallo sciopero e, quindi, ha ricordato che a norma dell’art. 8 della l. n. 146/1990 il potere di ordinanza può essere esercitato di iniziativa dell’Autorità solo nei casi di necessità e urgenza, presupposti ulteriori e non assorbiti nel primo, che l’ordinanza di precettazione deve enucleare in modo espresso e specifico.
Il ricorso dei sindacati è stato quindi accolto nel merito, con annullamento dell’ordinanza, non avendo la Commissione segnalato profili di criticità dello sciopero e avendo il Ministero agito sulla base di una valutazione semplice diversa da quella della Commissione.
Ambiente di lavoro conflittuale e responsabilità datoriale
da Admin2Cass. civ., sez. lav., ord. 4 gennaio 2025, n. 123
Con la sentenza in oggetto la Cassazione è tornata sul tema dell’obbligo datoriale di sicurezza, confermando in toto la sentenza di Appello che aveva riconosciuto in favore di una dirigente il risarcimento del danno biologico subito in seguito allo sviluppo di un clima di forte contrasto personale in ragione dell’intenzione del superiore gerarchico di attuare un processo di riorganizzazione degli uffici.
La pronuncia si inserisce nel recente e cospicuo filone di legittimità (Cass. 3822/2024, Cass. 4664/2024, Cass. 15975/2024) che, ribadendo la natura solo medico-legale di nozioni quali mobbing e straining, afferma che la mera tolleranza, da parte del datore, di un ambiente di lavoro stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori rappresenta un inadempimento al dovere di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. ed è quindi fatto ingiusto, fonte di danno risarcibile: pertanto, ritiene corretto il ragionamento dei giudici di Appello secondo cui il datore, considerata la situazione di conflittualità venutasi a creare nell’ufficio, avrebbe dovuto intervenire al fine di ristabilire la necessaria serenità, anziché contribuire a sua volta ad un circolo vizioso di reciproche iniziative provocatorie che aveva finito per logorare la salute psicofisica della ricorrente.
Merita segnalare come la Corte abbia ritenuto privo di pregio il motivo di ricorso datoriale secondo cui i giudici di Appello avrebbero omesso di considerare le risultanze della perizia secondo la quale la lavoratrice reagiva in modo eccessivo a situazioni di stress: oltre che inammissibile in quanto volto ad un nuovo esame del materiale probatorio, il motivo sarebbe stato comunque infondato perché «l’art. 2087 c.c. trova applicazione a protezione dei lavoratori in ogni caso, e ciò anche verso i lavoratori più deboli, sicché la maggiore fragilità del lavoratore incrementa e non attenua gli obblighi datoriali di protezione».